La novella del sindacalista scalzo – capitolo 2°
Credo sia giusto fare un passo indietro, ora.
Credo sia necessario descrivere in quale contesto agivano i nostri personaggi.
Immaginate un panorama di vallate e colline, sottili corsi d’acqua e campi coltivati, lunghe strade e una costa rocciosa, a tratti intervallata da assolate spiagge di sabbia bianca. Un mare azzurro che poi diventa verde e si perde nel grande blu all’orizzonte.
E poi boschi e radure folte di arbusti, piante a piccolo fusto, fichi d’India e fragole.
Una sinfonia di colori, dai più caldi ai più freddi.
Tutto e il contrario di tutto.
Questo vasto e variopinto territorio è punteggiato da paesi, piccoli e grandi.
A volte sono una manciata di case ai lati della strada principale, altre volte sono intrico di viuzze e vicoletti che di colpo si aprono su una grande piazza in cui immancabilmente troneggia la chiesa madre e un campanile che sembra un enorme missile puntato verso il cielo infinito.
Più si estende l’agglomerato urbano e più si riconosce la mano dei mille popoli che hanno vissuto queste meravigliose terre.
Nei secoli dei secoli, strato su strato hanno costruito, distrutto, riedificato e poi distrutto ancora e ricominciato.
Tutti con l’intento di essere gli ultimi, ma inevitabilmente influenzati da ciò che era venuto prima.
E così, attorno al nucleo fondativo del villaggio, confuso e disordinato, si trovano tracce di razionalismo e squadrature perfette, che ancora oggi ci si domanda come potessero essere così precisi i popoli antichi senza i mezzi tecnologici di cui oggi si dispone.
Case basse, in fila indiana, bianche e terracotta.
Alte torri, condomini abbaglianti, mercati coperti e ombreggianti ville comunali, tripudio di vegetazione che fa capolino tra asfalto e cemento.
Ricordo le corse sotto la pioggia mano nella mano, ricordo le partite di pallone o il nascondino fra le auto parcheggiate.
Alzavi lo sguardo e scoprivi un fregio, una decorazione, un dipinto murario, una sacra effigie.
Un immenso tesoro nascosto, dato per scontato, sotto gli occhi di tutti e quindi invisibile.
Umanità incurante.
Eppure, c’è, è lì, lo si può ancora vedere.
Si respira nell’aria.
Nello sguardo dei vecchi seduti al bar, nelle donne riunite in conciliabolo fuori dal mercato, nei bambini con le ginocchia sbucciate che piangono e ridono insieme.
Negli amori che nascono sotto grandi palme e finiscono per uno schiaffo, un insulto, uno sguardo di troppo, senza ragione.
E questo andirivieni, questa umanità a sprazzi, si risolve infine nelle feste di paese, in cui tutto viene spazzato via dal fiume in piena del rito, dalla liturgia sacra, laica e profana. Come un grande lavabo sociale, una fontana da cui sgorga il distillato dell’oblio.
Il domani è giorno nuovo, è giorno di rinascita. Perché nonostante tutto la vita rinasce, la vita prevale e prosegue.
Sarà forse per questo che alla fine non cambia mai niente.
Basta una serata di festa, in cui lo straccione si mescola al padrone e al clerico, si compie la catarsi.
Una granita fresca, un bagno al mare, una passeggiata nei campi e tutto torna al suo posto.
I vecchi muoiono tardi, bambini ne nascono sempre meno.
Eppure, siamo ancora qua.
Allora cosa poteva mai volere questo sindacalista scalzo, questo perdigiorno con tanto fiato in corpo?
Che cosa andava cercando tra noi?
Si dice che fu attirato dalla crisi della miniera.
Questa terra è ricca di materie prime, che spuntano in superficie o che si infiltrano tra le rocce del sottosuolo. E allora bombe e picconi, pale e minatori. Servono tante braccia forti, votate al sacrificio. Poche domande e tanto olio di gomito. Vuoi lavorare? Bene, l’opportunità c’è, ma non ti lamentare se poi torni a casa e non hai la forza di giocare coi tuoi figli, di amare tua moglie, persino di sognare.
La notte è breve e accompagna un sonno che è totale assenza di coscienza.
Luce della mente che si spegne.
Lui aveva saputo che il mercato tirava, i profitti della compagnia crescevano, la produzione doveva aumentare perché c’era grande richiesta.
E allora giù a costringere gli operai agli straordinari a parità di salario, perché tanto chi si rifiutava finiva in mezzo alla strada.
E allora sarebbe potuto tornare a giocare coi figli, a fare l’amore con la moglie, ma senza tetto sulla testa e senza cibo nel piatto.
Gli operai stavano provando ad organizzarsi da mesi, ma il padronato era bravo a dividerli, a minacciarli, a isolare i più estroversi.
Ma la cosa più grave era la totale INDIFFERENZA dei paesani, dei concittadini.
E proprio su quella il nostro sindacalista voleva lavorare, era quell’enorme blocco di disinteresse che lui voleva scalfire.
Come un maestro scultore che con martello e scalpello voglia cavar dal marmo grezzo una splendida statua.
Cammina, parla, scuote, rimprovera, ascolta, tace, piange e si emoziona. Empatizza e dà suggerimenti. Instancabile, viene giù come il temporale.
Lo vedi arrivare da lontano, col suo passo lento ma deciso, nuvolone all’orizzonte. Porta tempesta per gli sfruttatori ed acqua buona da bere agli sfruttati. Acquazzone nella siccità estiva.
Quelli come me godevano di un punto di osservazione privilegiato.
Noi siamo quella classe sociale nata con lo sviluppo dell’industria locale, siamo il terzo settore, colletti bianchi. Il mondo dei servizi.
Quelli che hanno studiato.
La cosa non ci riguardava direttamente, noi non ci potevamo lamentare.
Avevamo e abbiamo tutto ciò che ci serve, siamo la piccola borghesia impiegatizia e artigiana.
Certo, se il meccanismo si blocca ne risentiamo anche noi, come tutto l’indotto.
Ma non ce ne preoccupiamo troppo, anzi siamo molto incuriositi da queste dinamiche.
Molti di noi hanno fatto studi sociali, quel trambusto ci offriva la possibilità di osservare dinamiche che avevamo letto soltanto nei libri o descritte dai nostri vecchi professori.
Questi personaggi da commedia dell’arte ci facevano sorridere, ci davano motivo di animata discussione in pausa pranzo, quel poco di svago di cui vi parlavo.
Che posso dirvi, speravamo sinceramente che durasse! Ma come tutte le cose belle e divertenti, anche quella vicenda ad un certo punto finì. Meglio non correre, però. Torniamo a noi.
Vorrei ora accennarvi al modo in cui, una notte, il mio punto di vista cambiò.
Dopo la solita giornata in ufficio, conclusasi con la solita bevuta con amici e colleghi al bar del Corso, tornai a casa da mia moglie. Chiacchierando del più e del meno, come ogni sera, ad un certo momento esordì così:
<<Hai saputo della miniera?>>
<<In che senso?>>
<<Parlando con Teresa, mia cugina, ho saputo che il marito sta rischiando il posto, lei è molto preoccupata. Tira una brutta aria.>>
<<Ma chi? Salvatore? Quello è un attaccabrighe, lo sai. Ne avrà combinata una delle sue.>>
<<No, ti sbagli. Questa volta non c’entra il suo temperamento. Almeno, non direttamente. Ha visto morire sotto i suoi occhi un collega. Le condizioni di sicurezza al cantiere sono peggiorate e gli incidenti si stanno moltiplicando. Non ce la fa più a sopportare tutto questo. E sinceramente lo capisco, ha ragione!>>
Mia moglie non mi aveva mai parlato di certe cose.
<<Mi vuoi spiegare chi ti mette in testa queste idee? La cosa non ci riguarda. Certo, dispiace anche a me. Ma che ci possiamo fare? Funziona così!>>
<<Complimenti! Bel modo di ragionare! Non eri così quando ci siamo conosciuti! Ma tu lo sai qual è la seconda causa di morte delle persone nel mondo? Altre persone! E l’indifferenza nutre queste sciagure!>>
<<Come scusa?>>
Quel discorso, ovviamente, mi suonava familiare.
Finimmo per litigare.
Andammo a letto senza salutarci.
Io non riuscii a prendere sonno.
Il giorno dopo a lavoro fu terribile, così come i giorni successivi.
Lei sempre più angosciata dai racconti della cugina Teresa.
Io sempre più lacerato, ma deciso a non cedere, a tenere il punto.
Sarebbe stata lei a tornare sui suoi passi.
E invece accadde esattamente il contrario.
In qualche modo, il Sindacalista Scalzo era riuscito ad entrare nella testa di mia moglie, forse lei nemmeno lo sapeva.
Da lì in avanti le cose sarebbero cambiate irrimediabilmente.