L’EREDITÀ
Era da 30 anni che Mary aspettava quella visita ed ora che, finalmente, stava per riceverla era agitata e confusa.
Aveva previsto nella sua mente ogni istante di quella visita ed invece adesso era nervosa.
Provò a rielaborare mentalmente i suoi piani e, sedendosi sulla sua accogliente poltrona, vicino al caminetto, si mise a pensare.
Attorno a lei regnava il silenzio.
I suoi occhi indugiavano stancamente sui quadri appesi alle pareti, uno di essi la attraeva particolarmente perché rappresentava un vortice, con tutti quei colori vivi che il pittore aveva saputo sapientemente dosare per creare sensazioni oniriche.
Si sentiva catturata da quel quadro; ad un certo punto i suoi occhi si chiudevano e lampi di colori inondavano le sue palpebre, mentre le sue emozioni crescevano.
La sua lunga attesa era iniziata quando lei aveva 10 anni ed i suoi genitori erano morti in un disastro aereo, precipitati con il volo che li stava riportando a casa da New York a Boston.
Il padre era un valente dirigente industriale che aveva saputo far fruttare l’eredità della madre consistente in una fabbrica di acciai speciali.
Dopo il disorientamento emotivo dei giorni susseguenti alla sciagura, si vide affidata alla zia Doris, la sorella di sua madre, l’unica parente rimasta.
La madre aveva disposto, nel caso in cui fossero venuti a mancare entrambi i genitori, che sua sorella Doris avrebbe amministrato il patrimonio sin quando ella fosse vissuta.
Questa circostanza non la disturbò da bambina, ma crescendo e frequentando il college cominciò a starle stretta, poiché vedeva l’autonomia di cui godevano le sue compagne che denunciava ancora di più la sua dipendenza dalla zia Doris.
Raggiunta la maggiore età pretese di andare a vivere da sola.
La zia inizialmente non volle saperne, ma dietro le sue pressanti insistenze cedette e lasciò che si trasferisse in una casa tutta sua, alla fin fine era sempre un investimento.
Inizialmente lei assaporò la libertà, ma il dovere sottostare, per ogni sua esigenza economica, ai voleri della zia, trasformò quella casa in una prigione dorata nella quale si trovò a dover stare suo malgrado.
Non poteva farci nulla.
Disponeva di trentamila dollari all’anno che non le consentivano spese straordinarie, né di potersi muovere liberamente come avrebbe voluto.
Tutto era regolato dalle decisioni della zia Doris che non le faceva mai mancare tre volte all’anno (compleanno, onomastico e Natale), il solito flacone di Chanel nr.5, che lei riponeva sul ripiano di una credenza che con il trascorrere del tempo si era riempita e che lei confidava di poter svuotare quando si sarebbe affrancata dalla tutela della adorata zia.
Gli anni passavano e la sua giovinezza sfioriva nell’attesa che si realizzasse la sua liberazione.
Lei aveva già 40 anni e la zia ne aveva compiuti 87 e la sua salute non sembrava voler cedere.
La zia Doris era sempre brillante e pronta nei discorsi, oltre che capacissima nell’amministrare il patrimonio materno e nel farlo fruttare.
Una volta l’anno riceveva la visita del notaio Garrison che le portava il rendiconto di rito unitamente all’assegno annuo sempre dello stesso importo, accompagnato dalle raccomandazioni della zia affinché lo facesse bastare per tutto l’anno, poiché non ci sarebbe stato alcun extra.
Finalmente dopo che la zia aveva compiuto 88 anni, precisamente due mesi dopo, fu svegliata in piena notte da una telefonata, era il notaio Garrison che le comunicava il decesso della zia stroncata da un infarto.
Lei si preparò in fretta e chiamato un taxi si dispose per recarsi alla veglia funebre, aprì la credenza e pensò che fosse arrivato il momento di cominciare ad usare lo Chanel nr.5 regalatole, negli anni, dalla zia.
Aprì uno dei flaconi e si mise alcune gocce sul viso e sul collo.
Nel suo intimo gioiva e doveva fare un grande sforzo per contenere la sua grande gioia che rischiava di denunciare il suo piacere per la morte della zia.
Si recò alla veglia e con grande sforzo interiore riuscì a rimanere impeccabile e composta sino a quando, fece ritorno a casa e si mise a sedere sulla sua poltrona preferita ripensando a quello che era successo.
Le emozioni erano state tante e troppo veloci e non avevano potuto essere gustate con la pienezza con cui avrebbe voluto gustarle.
Cominciò a pensare a quel che avrebbe potuto fare con un patrimonio da 10 milioni di dollari che ritornava in suo possesso.
Pensò che avrebbe fatto un lungo viaggio con qualche amica, ma si accorse che, a causa del suo vivere segregata nell’attesa della morte della zia, non aveva amiche quelle del college si erano tutte sposate ed avevano la loro famiglia.
Pensò che il tempo le avesse rubato questi piaceri, ma si ritrovò ad auto compiangersi, infatti, fu lei stessa a non aver voluto usare il tempo utilmente.
Si confortò pensando che sarebbe partita egualmente anche da sola, del resto sino ad allora aveva fatto tutto in autonomia e non vedeva alcun motivo per cui non avrebbe potuto continuare a farlo.
Era contenta con sé stessa e pensava che tutto si sarebbe, finalmente, svolto come lei desiderava.
Si addormentò, come spesso le succedeva, sulla poltrona con la piacevole sensazione che finalmente stava vivendo.
L’indomani vi furono le esequie della zia Doris e l’impresa funebre provvide nella giornata seguente a recapitarle l’urna con le ceneri della zia che osservò per un istante e gettò con profondo odio nel bidone della spazzatura.
Quell’urna conteneva le ceneri di chi l’aveva tenuta prigioniera per 30 anni, era stata la sua carceriera e lei non voleva serbarne neppure il ricordo.
Si mise delle altre gocce di profumo e si dispose per andare a letto.
Voleva riposare per essere in perfetta forma perché l’indomani attendeva la visita più importante della sua vita, doveva venire a trovarla il notaio Garrison per formalizzare il passaggio del patrimonio nelle sue mani.
Aveva già deciso che dopo questo atto avrebbe licenziato il notaio, non poteva sopportare di avere ancora rapporti con chi le ricordava gli anni della schiavitù.
No, non avrebbe potuto proprio tenerlo al suo servizio.
Voleva umiliarlo, perciò aveva studiato tutto nei minimi particolari, aveva scelto la sedia su cui lui si sarebbe seduto; una sedia bassa, così lei lo avrebbe dominato in modo che, finalmente, avrebbe capito chi fosse la vera padrona.
Tutto era pronto e nulla avrebbe potuto turbare la sceneggiatura da lei ideata per quel formale addio, sì perché a lei era piaciuto di definirlo formale.
Riaprì gli occhi e cercò di non indugiare più sui colori di quel quadro che tanto la affascinavano.
Si mise ancora alcune gocce di Chanel e gioì in cuor suo di averne una così grande provvista che, ne era sicura, le sarebbe bastata per il resto della sua vita.
Finalmente si udì il trillo del campanello.
Si precipitò ad aprire per mettere in atto la sceneggiatura che aveva da tempo predisposto, ma aprendo la porta si trovò oltre alla persona che stava aspettando il notaio Garrison, anche il dottor Manson suo medico personale e ne rimase stupita.
Li fece accomodare, badando che il notaio si sedesse nella sedia che lei aveva predisposto per lui, poi quando si fu seduto pure il dottore lei si accomodò sulla sua sedia dominante rispetto a quella occupata dal notaio.
L’atmosfera era seria e le parve opportuno rompere quel silenzio chiedendo al notaio se avesse portato le carte che lei doveva firmare per entrare in possesso del patrimonio materno.
Il notaio rispose che le aveva con sé, ma prima era più urgente che lei ascoltasse quello che il dottor Manson voleva dirle.
Lei cercò di posporre la conversazione con il dottore a dopo la firma dei documenti ma dietro l’insistenza del notaio si dispose ad ascoltare quello che il dottore aveva da dirle.
Il dottore le disse che aveva il risultato delle analisi fatte nel suo laboratorio durante la sua ultima visita di quindici giorni prima a causa del suo stato di anemia.
Le analisi non lasciavano dubbi, erano state, per sicurezza, ripetute due volte, dalle stesse emergeva che lei era affetta da leucemia fulminante che aveva compromesso irrimediabilmente le funzionalità epatiche e che le rimanevano al massimo tre mesi di vita.
Lei non ebbe la forza di proferire alcuna parola, anzi sprofondò nel suo essere, tanto che le pareva di essere seduta più bassa rispetto al notaio.
Il notaio, in silenzio, le porse le carte che lei firmò stancamente senza alcun entusiasmo.
Li pregò di lasciarla sola, malgrado le loro insistenze di mandarle una infermiera che le facesse compagnia, ma lei non volle in alcun modo aderire alla loro offerta, anzi li congedò amabilmente e chiusa la porta si lasciò andare di peso sulla poltrona e chiuse gli occhi, ma non aveva voglia di guardare niente e pensò agli anni trascorsi, al tempo che non aveva più ed alla fine imminente della sua vita che non aveva vissuto.
Stancamente prese dal tavolino accanto la Holy Bible che le aveva regalato il Pastore del suo quartiere e che non aveva mai letto e decise di aprirla a caso ed i suoi occhi furono presi dal passo del Vangelo di Luca: “Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”.
Dopo aver letto quel passo, chiuse gli occhi e pensò che si aveva ricevuto i suoi beni, ma che, comunque, stava per perdere il bene più importante: la vita.