La novella del sindacalista scalzo – capitolo 3°
E mentre in tutto il paese si manifestavano i primi segni del suo passaggio e del suo predicare, il nostro sindacalista a piedi nudi finiva per passare sempre più tempo in gattabuia.
Ogni volta che ci tornava aveva la possibilità di conoscere persone diverse, piccoli furfanti, ubriaconi, spiantati, accattoni.
Criminalità comune.
Poi c’erano quelli che potremmo definire “lungodegenti”, gli affezionati del carcere, recidivi e non.
Tra loro vi era una donna, né giovane né vecchia, forse malata.
Anzi, era certamente malata perché pare che perdesse sangue da un orecchio di tanto in tanto. Aveva un aspetto sciupato, ma non sembrava troppo avanti con l’età.
La pelle manteneva una certa elasticità, gli occhi erano di un blu acceso, mentre i capelli spettinati e sporchi restituivano un’immagine decisamente misera.
Doveva esser stata una bellissima donna al tempo dei suoi anni migliori. Portava una catenina al collo, una mezzaluna dorata. Indossava sempre la stessa camicetta scollata che un tempo doveva esser bianca, ormai logora, una gonna lunga, nera come la notte, con fiori rossi.
Zoccoli di legno con il cinturino in cuoio e la fibbia laccata.
Cantava, spesso e volentieri. A mezza voce, senza risultare fastidiosa. In particolare, lo faceva quando uno degli altri ospiti della struttura risultava essere troppo irrequieto. Per evitare che intervenissero gli sbirri a dargli giù botte di santa ragione, col suo canto rasserenava gli animi di tutti e copriva quei rumori molesti, fino a che l’esagitato non si lasciava anche lui trasportare da quella voce calda e dolce.
“Eccoci qua anche oggi, caro mio. La stanza è la solita, a lei riservata. Le politiche della struttura le conosce già: il rancio è al solito orario, metà giornata, non sono previsti cambi di lenzuola o servizio al piano. Si goda la sua permanenza”
e così dicendo il commissario usciva sghignazzando coi colleghi, dopo aver accomodato il nostro sindacalista nella sua solita cella.
A quel punto, come ogni volta, egli si lasciava cadere sulla brandina come un sacco di patate, si toglieva il cappello e cominciava a massaggiarsi i piedi, lentamente, per non sentire troppo dolore.
Quella volta accadde qualcosa di diverso, però.
La donna gli rivolse la parola per la prima volta. E così esordì:
“Giovanotto, non ha ancora trovato un paio di scarpe?”
“Cara signora, non le cerco”
rispose, tra smorfie di dolore.
“E perché mai?”
“E’ un fatto di principio, ho deciso così”
“E cosa ha ottenuto?”
“Ho male ai piedi”
“Meno male, almeno lo riconosce da sé”
“Senta, cara signora, la sua presenza qui fino ad ora ha allietato tutti noi, che ci domandiamo come mai un fiore come lei sia finita in un posto come questo, con quella sua bella voce. Mi permetta però di chiederle una cortesia: non mi faccia la lezioncina”
“Quale lezioncina? Mi pare lei non ne abbia bisogno. Lei sa benissimo quello che fa e sa benissimo che non otterrà risultati in questo modo”
Il nostro protagonista si bloccò. Quella donna lo aveva colto di sorpresa.
“Perché la pensa così?”
“Mi pare evidente, una persona con la sua cultura e la sua esperienza non può essere così sciocco da pensare che basti un gesto di protesta tanto ridicolo per attirare l’attenzione delle persone.
Lei ha intrapreso una crociata contro i mulini a vento in questo modo. Ma la cosa che mi infastidisce, se me lo concede, è il fatto che lei non si sta impegnando davvero. Non è con questi gesti puerili che può ottenere dei risultati. Sbaglio?”
“La verità è che lei non sbaglia”
rispose il sindacalista, gettandosi all’indietro sul lettino dopo qualche decina di secondi di silenzio.
Stava valutando se rispondere piccato o mostrarsi fragile.
Scelse la seconda opzione: quella donna ispirava in lui fiducia e una incomprensibile sensazione di ammirazione. Era acuta, oltre che affascinante.
“Le dirò di più, lei è molto stanco. Sembra quasi non averne più voglia, non è vero? Non si sta impegnando seriamente, sta solo facendo una gran confusione.”
“Le sue parole tagliano e feriscono, ma questo le rende ancor più sincere. È vero sono stanco, ma sto mettendoci il massimo impegno nelle mie battaglie. Combatto da sempre, che io ricordi: forse accuso un po’ questi anni di fatiche e viaggi e parole spese, a volte con frutto, molte altre volte senza. A volte le parole sono piccoli semi che vedranno nascere una pianta dopo tanto tempo, forse mai. È davvero un’impresa titanica e non se ne vede mai la fine. È un po’ frustrante, ecco tutto”
“Ciascuno combatte le sue battaglie, a volte facili a volte difficili. Mi pare che lei le sue se le sia scelte”
“Oggi sì, ma all’inizio non era così. All’inizio ho lottato per la mia vita e la mia indipendenza, per la mia stessa libertà. Ed è lì che ho capito che il mio singolo destino non conta nulla se non si uniscono le forze con chi vive la mia stessa condizione. È quel poco che abbiamo strappato con le unghie e con i denti a questa vita grama che va’ condiviso col nostro prossimo. Siano beni materiali, sentimenti, valori, conoscenza. Cosa ne pensa?”
“Cosa penso io?
Ciò che penso io non ha alcun valore,
io sono una donna”
“Perché dice questo?”
“Perché anche questa è la verità, amara verità!”
rispose con vigore la donna.
“Allora per un momento io e lei ci dimenticheremo che è una donna, sarei curioso di sapere che cosa pensa di tutto questo. Sarei curioso anche di sapere perché lei è qui, se vorrà condividerlo”
Nel frattempo, gli altri carcerati non avevano aperto bocca, un po’ sorpresi un po’ incuriositi da quel chiacchierare.
“Sì, bambola, dicci qualcosa di te, anziché far la morale a questo pazzo scatenato!”
aveva gridato un tizio da un punto imprecisato nella penombra. Poi si era alzato e si era sporto dalle sbarre di metallo, mostrando denti gialli e due braccia nerborute.
“Ha visto?
Il mio pensiero non conta nulla,
a malapena ha un qualche valore la mia storia.
Ma solo per farmi parlare, perché qualcuno mi si vorrebbe scopare, probabilmente”
“Sì, ho compreso il suo punto di vista, ma ignori certi animali”
lanciò un’occhiataccia al tizio che si era volgarmente rivolto alla donna, la cui cella si trovava lungo la parete di fondo di quel piano, mentre la sua era poco distante.
“Penso che le parole non bastino, a volte.
Penso che a volte serva l’azione, come nel mio caso, ad esempio.
E per azione non intendo certo disfarsi delle proprie scarpe e girare scalzo”
“Sì, il messaggio è passato”
sorrise il nostro sindacalista.
“Nel suo caso, però, forse non sono né le parole né l’azione che servono. Ha mai provato, nel corso degli anni, a cambiare strategia?”
“Che cosa intende?”
“Intendo a cercare nuove strade per raggiungere i suoi scopi, per arrivare alla gente”
“Temo di no”
“Bene, allora se lo faccia dire da chi conosce questa gente”
sottolineando l’ultima parola con un tono piuttosto spregiativo
“lasci andare”
“In che senso, mi perdoni? Dopo tutta questa fatica e con tutti i guai che ci sono dovrei darla vinta a chi comanda? Questo non succederà mai e poi mai, con o senza scarpe non mi posso arrendere, non è contemplato”
“Non ha capito: sono giorni che predica, ha già piantato molti semi, qualcosa sta già cambiando. Nessuno si è mai comportato qui come sta facendo lei, chi lo ha fatto di certo non aveva la sua proprietà di linguaggio, il suo temperamento o il suo coraggio. Qualcosa nascerà, ora faccia come il saggio cinese: si sieda al lato del fiume, aspetti di veder passare i cadaveri dei suoi nemici”
“Dovrei lasciare andare le cose per conto loro?”
“Esattamente, scelga un punto comodo e si sieda ad osservare. L’umanità di queste terre è così stupida che si scaverà la fossa da sola, ma qualcuno di avveduto c’è, saranno loro a venirla a cercare. Loro la eleggeranno a paladino delle loro sofferenze e dei loro diritti.
Smetta di sprecare fiato ed energie, si ricomponga, si dia una ripulita, si comporti da cittadino avveduto, continui con un lavoro silenzioso, di cesello, resti in ascolto dei reietti e degli ultimi.
E si compri delle maledette scarpe, per dio”
Il sindacalista rimase sconvolto. Non ci aveva minimamente pensato, forse però quella donna aveva ragione. Dopo qualche minuto, chiese, a voce leggermente più bassa ma sufficiente a farsi sentire.
“Lei chi è, mia cara signora?”
“Io sono una donna che ha scelto la libertà dentro una gabbia
rispetto alla prigionia che prima viveva camminando all’aria aperta.
Sono madre di due bambine picchiate e seviziate,
moglie di un uomo violento e prepotente,
che alle carezze ed ai baci dei primi mesi ha presto sostituito cinghiate, mazzate, sputi, insulti e stupri.
O forse dovrei dire ex marito”
“Ma lei perché è qui, se ha subìto queste violenze, se è lei la vittima, come le sue figliole?”
chiese il sindacalista.
“Perché sono un’assassina:
l’ho ucciso, prima che lui uccidesse me e le mie bambine.
All’ennesimo insulto per avergli dato due gemelle femmine, anziché un maschio, ha cominciato a pestarmi con tutta la sua forza.
Mi ha colpito la testa, lasciandomi sorda da un orecchio.
Ma io non potevo più sopportare, non potevo permettere che le mie due bambine crescessero con questa idea della madre,
delle donne in generale.
Remissive e impotenti nel subire soprusi di ogni sorta.
Così l’ho colpito col coltello che avevo in mano, mentre tentavo di preparare la cena.
L’ho colpito una volta, poi una ancora, poi ancora e ancora finché tutto il sangue che aveva in corpo non è sgorgato via.
Ad una donna è concesso di morire prendendo le botte, ma non è concesso di difendersi e uccidere il proprio carnefice, a quanto pare”
“E le sue bambine?”
“Sono con la madre… di lui, al momento.
Vittima e carnefice della nostra comune disgrazia:
esser nate con la vagina in un mondo di merda”
“E’ una storia terribile”
“E’ la mia storia, spero non le dispiaccia.
Si compri quelle maledette scarpe quando uscirà di qui e faccia un tentativo, provi a comportarsi come le ho detto.
Forse un giorno mi racconterà com’è andata”
e si girò su un fianco, raggomitolata su sé stessa, rivolta verso il muro. Cadde il silenzio.